Analisi della poesia "Odi Melisso" di Giacomo Leopardi. di Elena Negro
Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno
Di questa notte, che mi torna a mente
In riveder la luna. Io me ne stava
Alla finestra che risponde al prato,
Guardando in alto: ed ecco all’improvviso
Distaccasi la luna; e mi parea
Che quanto nel cader s’approssimava,
Tanto crescesse al guardo; infin che venne
A dar di colpo in mezzo al prato; ed era
Grande quanto una secchia, e di scintille
Vomitava una nebbia, che stridea
Sì forte come quando un carbon vivo
Nell’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo
La luna, come ho detto, in mezzo al prato
Si spegneva annerando a poco a poco,
E ne fumavan l’erbe intorno intorno.
Allor mirando in ciel, vidi rimaso
Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia,
Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa,
Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro.
MELISSO
E ben hai che temer, che agevol cosa
Fora cader la luna in sul tuo campo.
ALCETA
Chi sa? non veggiam noi spesso di state
Cader le stelle?
MELISSO
Egli ci ha tante stelle,
Che picciol danno è cader l’una o l’altra
Di loro, e mille rimaner. Ma sola
Ha questa luna in ciel, che da nessuno
Cader fu vista mai se non in sogno.
Una notte del 1819 Giacomo Leopardi si sveglia spaventato in seguito ad un
terribile incubo: affacciato alla finestra della sua abitazione che da' sul giardino,
guardando la luna, come è solito fare, si accorge che questa sembra ingigantirsi
sempre di più, ma è solo un'illusione; la luna sta cadendo. Sorpreso e spaventato la
osserva immobile precipitare sul prato. L'erba verde e rigogliosa, poco prima
illuminata candidamente, ora annerisce sotto le scintille lunari che circondano tutto
in una nebbia stridente; ma la più agghiacciante visione si ha in cielo: la sede della
luna è vuota e buia, un'orma, una triste impronta, una nera orbita vuota.
Il poeta, sconvolto da questa visione, riscrive l'incubo in poesia. Il testo, strutturato
come un dialogo tra due pastori dell'antica Grecia compare per la prima volta lo
stesso anno come “Il sogno” nelle carte autobiografiche, poi rinominato “Lo
spavento notturno” nell'edizione dei “Canti” del 1831.
I protagonisti sono Alceta e Melisso, due pastori tratti dalla “Favola pastorale” di
Guidobaldo Bonarelli: Alceta, ancora scosso dal sogno, lo racconta a Melisso che
sembra volerlo sminuire e svalutare tramite l'ironia. Questi personaggi assumono
connotazioni più precise e definite alla luce di un altro avvenimento: lo stesso anno
Leopardi aveva tentato la fuga dalla opprimente casa paterna, ma questa era fallita. Il
padre, venuto al corrente delle sue intenzioni e non capendo le sue esigenze e
motivazioni, ne era rimasto stupito e fortemente addolorato; rimproverandolo aveva
distrutto il suo desiderio di libertà.
Ora sembra evidente la derivazione dell'incubo.
Improtante fattore è la connotazione dei due interlocutori: Leopardi non sceglie due
pastori dell'antichità solo a causa degli studi eruditi di questo periodo, ma per
potersi riferire alle loro credenze secondo cui il sogno aveva un forte valore
profetico che riconosciamo in Alceta che lo sottolinea utilizzando analogie tratte dal
mondo concreto, come quella col carbone (vv. 12) e tramite l'introduzione del
racconto con la parola “sogno”. Questa è, invece, usata da Melisso nella chiusura
per avvalorare la sua tesi secondo cui tutto ciò è un'immagine astratta, non
veritiera.
Ancor più centrale dei due pastori è la figura della luna, tipica di Leopardi. Se ne “La
sera del dì di festa” è un collegamento con la donna amata e nel “Canto notturno di
un pastore errante dell'Asia” sottolinea la distanza incolmabile tra ignoranza umana
e verità assoluta, una caratteristica mantiene invariata: la luna è muta, non rivela
la sua conoscenza.
Altera e distante non risponde al pastore errante dell'Asia, né a quello greco;
entrambi umili ed entrambi connotati dall'appartenenza ad un un luogo atemporale,
quasi una dimensione lontana ed irraggiungibile sia per noi che per la luna.
La caratteristica che distingue questa dalle altre lune è l'impersonare la speranza
che sembra subito ingigantirsi ed avvicinarsi benevola, ma che in realtà sta
precipitando bruciando sogni e progetti futuri cresciuti sotto la sua luce candida e
lasciando un vuoto orribile ed incolmabile.
Sembra quasi una anticipazione della figura tetra ed ostile della speranza in “A
Silvia”. Tra questi due testi ritroviamo un'altra importante chiave di lettura
leopardiana: la finestra; il filtro che divide e separa l'esterno, ormai irraggiungibile,
e l'interno opprimente della sua prigione. Leopardi osserva immobile le sue
speranze crollare senza poterlo impedire in alcun modo a causa di questa barriera
che lo rende piccolo e fragile.
Il testo ci vuole trasmettere tutte queste sensazioni concentrandosi sulla paura e lo
stupore resi da vari climax (vv. 8-9 e v. 18) e ripetizioni (vv. 15-16).
Quest'opera è, in un certo senso, simile alla finestra: delinea un confine tra due
momenti distinti ed opposti della poesia leopardiana rimanendo a metà tra questi.
Ritroviamo ancora l'erudito e gli studi negli interlocutori e nel linguaggio da loro
usato (v. 1) ed alcuni termini arcaici (v. 19), ma presenta già una anticipazione
della caduta delle illusioni, della natura matrigna e della mancanza di punti di
riferimento.
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