Cronache di un viaggio in Romagna, tra tortellini, mosaici e piccioni

In principio fu la sveglia alle cinque.

La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso. Più di quattro ore di pullman ci separavano dalla città degli Este. La tranquilla Ferrara ci accolse in maniera scoppiettante: destino volle che incontrammo ben otto neolaureati sul nostro cammino, vestiti ovviamente nella maniera più imbarazzante possibile. Tra una neodottoressa in Scienze della Comunicazione vestita da pacchetto di pasta e un giovane laureato in Giurisprudenza con muta da sub e pinne, i tesori della città apparvero via via dinanzi ai nostri occhi. Nonostante i danni del terremoto, la facciata gotica della Cattedrale incombeva sulle nostre teste, in tutto il suo splendore; dietro di noi, il Palazzo Ducale, collegato al Castello Estense da una “via Coperta” che consentì ad Eleonora di Napoli, moglie di Ercole I d’Este, di fuggire dal Palazzo verso il Castello nel corso di una rivolta. Da quel giorno, non volle sentire ragioni: mai e poi mai sarebbe tornata nello scarsamente protetto Palazzo Ducale. Ercole I fu un grande duca per Ferrara, noto anche per aver costruito il Palazzo dei Diamanti, che prende questo nome dalla forma del bugnato sulla facciata. La leggenda vuole che, in una di tali pietre, vi sia incastonata proprio la preziosa gemma.

La Cattedrale di Ferrara

Dopo cena camminammo per le vie deserte di Ravenna, passando davanti a Sant’Apollinare Nuovo, la cui spoglia facciata paleocristiana sembrava dirci: “Forza, entrate, la mia bellezza sta all’interno”. L’antica basilica dovette però aspettare diverse ore.


E fu sera, e fu mattina: primo giorno.


L’ultima capitale dell’Impero Romano d’Occidente è la regina indiscussa dei mosaici. Invidiosa di Ferrara, anche lei decise di riservarci un’accoglienza speciale: all’arrivo presso il meraviglioso complesso di Sant’Apollinare in Classe, trovammo ad aspettarci niente meno che un corteo funebre. Fu qui, inoltre, che un piccione decise di nominare la mia spalla suo water personale, regalandomi momenti di vera gioia interiore. “Merda”, come disse Dante. Dentro la veneranda chiesa, non potemmo che fissare estasiati i mosaici del catino absidale, consapevoli che quello era soltanto l’inizio: Ravenna si sarebbe rivelata in tutta la sua magnificenza soltanto più tardi. Nel cielo la Luna oscurava parte del Sole, quando passammo davanti al Mausoleo di Teodorico e alla sua cupola bianca monolitica, diretti verso la tomba di Dante. Nonostante ogni anno i fiorentini continuino formalmente a chiedere indietro il suo corpo, per tumularlo all’interno di Santa Croce, le spoglie del Sommo Poeta restano saldamente al loro posto a Ravenna, vicine al luogo dove i frati francescani le nascosero per impedirne il trasferimento proprio a Firenze. Venne mezzogiorno: a pranzo, ovviamente, una piadina romagnola.


Nel pomeriggio incontrammo l’imperatore Giustiniano e la moglie Teodora all’interno della Basilica di San Vitale, i volti impassibili e incastrati nelle minuscole tessere dei mosaici. Ci preparavamo, nel frattempo, all’ingresso nel Mausoleo di Galla Placidia. Entrammo, e, come Dante, vedemmo le stelle. All’interno della piccola aula a croce latina non v’è un singolo centimetro quadrato di muro che non sia coperto di marmo, nella parte bassa, mentre nella parte superiore e nella volta è tutto uno splendido mosaico, un blu profondo in cui si stagliano figure sacre e centinaia di stelle d’oro. Mi dispiace, Sant’Apollinare Nuovo, ma non puoi reggere il confronto. Visitandoti dopo la tomba di Galla Placidia, eravamo troppo abbagliati dalle sue bellezze per ammirare come avremmo dovuto gli stupefacenti mosaici delle tue pareti.


Quella sera, essendo venerdì, uscimmo per le vie della città, passando la serata in un bowling. Poi rientrammo in albergo, ed io, stanco dopo due giorni di passi su passi, caddi come corpo morto cade.


E fu sera, e fu mattina: secondo giorno.

Il complesso di San Vitale, visto dal Mausoleo di Galla Placidia
Capii che la giornata stava iniziando male quando a svegliarmi fu inaspettatamente la voce di un mio amico al telefono: sbraitava che mancavano soltanto quindici minuti alla partenza e che tutti erano già pronti. Erano le sette, ergo la mia sveglia non aveva svolto l’unico incarico per il quale era stata costruita. Oltre ad odiare i ritardi, odio anche essere svegliato di soprassalto, per cui cominciai a mugugnare che la mattinata stava prendendo una pessima piega. Ma non fu così.

Sperando di non dimenticare nulla in camera, caricammo le valigie sul pullman, diretti verso Bologna: la dotta, la rossa e la grassa. Partecipare insieme ad altre duecentomila persone alla Marcia contro le mafie di Libera fu un’emozione unica. Di sfuggita passammo sotto al Portico di San Luca, il più lungo del mondo, camminando lungo via Sant’Isaia. San Petronio ci guardava dall’alto, mentre il rosso dei suoi mattoni ci trasmetteva il calore e l’allegria romagnola. Piazza Maggiore, su cui si affaccia la grande basilica, non poteva nelle nostre teste che rimandarci al cantautore che la chiamava Piazza Grande. Continuavamo a camminare per le vie di Bologna, dove non si perde neanche un bambino, mentre gli altoparlanti scandivano i nomi delle oltre mille vittime innocenti delle mafie.

La Fontana del Nettuno in Piazza Maggiore, attraversata nel corso della marcia
La marcia si concluse in Piazza VIII Agosto, con il lungo e appassionato intervento di don Luigi Ciotti, fondatore della rete di Libera. Un’ora e un piatto di tortellini dopo, visitammo il Palazzo dell’Archiginnasio, sede della prima università del mondo occidentale, costruito nel luogo dove si sarebbe dovuto trovare un braccio del transetto di San Petronio, se solo il papa non avesse deciso di bloccare la costruzione della basilica. Come un bambino geloso, infatti, temeva che la chiesa bolognese superasse in grandezza la basilica di San Pietro a Roma. Non sia mai: meglio far costruire un palazzo, quello dei Banchi, per bloccarne i lavori. Le torri della Garisenda e degli Asinelli non avevano mai smesso di osservarci camminare: i loro 50 e 100 metri di altezza sono ciò che resta delle decine di case-torri medioevali che caratterizzavano la skyline di Bologna come un’antica Manhattan, costruita però in mattoni.


Venne la sera, venne l’ora di ripartire. Ciascuno di noi portava nel cuore qualcosa dei luoghi che aveva visitato nei giorni passati: un capitello, un dettaglio, una tessera di un mosaico. Perché la vera bellezza di queste città sta nell’apprezzarne gli scorci più nascosti, non soltanto le facciate dei monumenti famosi.

E fu sera, e fu mattina: terzo (ed ultimo) giorno.

Commenti

Post popolari in questo blog

Analisi della poesia "Odi Melisso" di Giacomo Leopardi. di Elena Negro

Intervista impossibile a Caravaggio

Il benvenuto della redazione all' a.s. 2023-2024