Inguaribile individualità, Individualismo e malattia romantica, di Barbara Balcon

“Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta da sperare né in vigilia né in in sogno. Lasci fare alle masse, le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse che oggi illuminano il mondo.”

Questo ironico interrogativo di Leopardi ben evidenzia un’attenzione tipicamente romantica all’individualità, che nel secolo decimonono viene sollecitata a lasciare il posto ad una società di massa che si svilupperà pienamente nel ‘900.

Sorge allora spontaneo domandarsi in che cosa consistesse l’individualismo romantico. Per rispondere è fondamentale tenere a mente l’importanza del contrasto vissuto dai romantici: l’individuo si definisce e si afferma in contrapposizione con la società di cui il poeta non si sente parte, ma corpo estraneo, perché, come scrive Umbero Bosco in “Preromanticimo e Romanticismo” egli “Non sa vivere come gli altri uomini e questi lo martirizzano”.

 L’eroe romantico è impossibilitato a sottostare ad ogni limite e definizione, anche quelle che possono apparire imprescindibili, ritrovandosi ad esaltare addirittura il concetti di malattia. Spiega Hauser in “Storia sociale dell’arte e della letteratura”: “Per loro la malattia rappresentava la negazione del consueto, del normale, del ragionevole e portava in sé quel dualismo di vita e di morte, natura e non natura, vincolo e dissoluzione, che dominano tutto il loro mondo”.

Non è un caso, quindi, che diversi artisti, come, ad esempio, Théodore Géricault abbiano posto in parallelo genio e follia, entrambi fuori da ogni schema e lontani da quella normalità di cui i romantici vogliono ad ogni costo spogliarsi.

Nella mentalità moderna salute e felicità costituiscono un binomio inscindibile; risulta facile etichettare come malato, innaturale, fuori dal fisiologico quello che con la sua diversità ci turba.

Allora l’arido vero di Leopardi viene liquidato come il vaneggiamento di un banale malato, come ragionamenti la cui validità è da circoscrivere alla situazione particolare di un’esistenza sfortunata, proprio quando il poeta avrebbe voluto mettere da parte il proprio io individuale per lasciare il posto ad un io universale che si incarna in un pastore errante dell’Asia o in un viaggiatore islandese. Per i contemporanei di Leopardi di certo non si sarebbe potuto definire salutare affermare che l’uomo non è, non sa e non può sperare. Difficilmente un pensiero del genere avrebbe permesso di condurre un’esistenza tranquilla, ordinaria, abitudinaria, in una parola: normale.

Ma i romantici non sono estranei a schierarsi titanicamente contro il mondo e a soffrire vittime di quello che Byron deifinisce “il gregge degli uomini”. Con la malattia essi riescono ad affermare lo spirito romantico nella sua interezza.

Questo concetto così peculiare non poteva che ripresentarsi in veste rinnovata nel secolo successivo, come presenza omnipervasiva, fedele compagna di Zeno Cosini e della sua ultima sigaretta.

Barbara Balcon, 5^A Sc

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