La bellezza salverà il mondo?


"Entrare in un palazzo civico, percorrere la navata di una chiesa antica, anche solo passeggiare in una piazza storica o attraversare una campagna atrofizzata vuol dire entrare materialmente nel fluire della Storia. Camminiamo, letteralmente, sui corpi dei nostri progenitori sepolti sotto i pavimenti, ne condividiamo speranze e timori guardando le opere d’arte che commissionarono e realizzarono, ne prendiamo il posto come membri attuali di una vita civile che si svolge negli spazi che hanno voluto e creato, per loro stessi e per noi. Nel patrimonio artistico italiano è condensata e concretamente tangibile la biografia spirituale di una nazione: è come se le vite, le aspirazioni e le storie collettive e individuali di chi ci ha preceduto su queste terre fossero almeno in parte racchiuse negli oggetti che conserviamo gelosamente. 
Se questo vale per tutta la tradizione culturale (danza, musica, teatro e molto altro ancora), il patrimonio artistico e il paesaggio sono il luogo dell’incontro più concreto e vitale con le generazioni dei nostri avi. Ogni volta che leggo Dante non posso dimenticare di essere stato battezzato nel suo stesso battistero, sette secoli dopo: l’identità dello spazio congiunge e fa dialogare tempi ed esseri umani lontanissimi. Non per annullare le differenze, in un attualismo superficiale, ma per interrogarle, contarle, renderle eloquenti e vitali. Il rapporto con il patrimonio artistico – così come quello con la filosofia, la storia, la letteratura: ma in modo straordinariamente concreto – ci libera dalla dittatura totalitaria del presente: ci fa capire fino in fondo quanto siamo mortali e fragili, e al tempo stesso coltiva ed esalta le nostre aspirazioni di futuro. In un’epoca come la nostra, divorata dal narcisismo e inchiodata all’orizzonte cortissimo delle breaking news, l’esperienza del passato può essere un antidoto vitale. (...) Per questo è importante contrastare l’incessante processo che trasforma il passato in un intrattenimento fantasy antirazionalista (...). 
L’esperienza diretta di un brano qualunque del patrimonio storico e artistico va in una direzione diametralmente opposta. Perché non ci offre una tesi, una visione stabilita, una facile formula di intrattenimento (immancabilmente zeppa di errori grossolani), ma ci mette di fronte a un palinsesto discontinuo, pieno di vuoti e di frammenti: il patrimonio infatti è anche un luogo di assenza, e la storia dell’arte ci mette di fronte a un passato irrimediabilmente perduto, diverso, altro da noi. Il passato “televisivo”, che ci viene somministrato come attraverso un imbuto, è rassicurante, divertente, finalistico. Ci sazia, e ci fa sentire l’ultimo e migliore anello di una evoluzione progressiva che tende alla felicità. Il passato che possiamo conoscere attraverso l’esperienza diretta del tessuto monumentale italiano ci induce invece a cercare ancora, a non essere soddisfatti di noi stessi, a diventare meno ignoranti. E relativizza la nostra onnipotenza, mettendoci di fronte al fatto che non siamo eterni, e che saremo giudicati dalle generazioni future. La prima strada è sterile perché ci induce a concentrarci su noi stessi, mentre la seconda via al passato, la via umanistica, è quella che permette il cortocircuito col futuro. 
Nel patrimonio culturale è infatti visibile la concatenazione di tutte le generazioni: non solo il legame con un passato glorioso e legittimante, ma anche con un futuro lontano, “finché non si spenga la luna”. Sostare nel Pantheon, a Roma, non vuol dire solo occupare lo stesso spazio fisico che un giorno fu occupato, poniamo, da Adriano, Carlo Magno o Velazquez, o respirare a pochi 
metri dalle spoglie di Raffaello. Vuol dire anche immaginare i sentimenti, i pensieri, le speranze dei miei figli, e dei figli dei miei figli, e di un’unità che non conosceremo, ma i cui passi calpesteranno le stesse pietre, e i cui occhi saranno riempiti dalle stesse forme e dagli stessi colori. (...) È per questo che ciò che oggi chiamiamo patrimonio culturale è uno dei più potenti serbatoi di futuro, ma anche uno dei più terribili banchi di prova, che l’umanità abbia mai saputo creare. Va molto di moda, oggi, citare l’ispirata (e vagamente deresponsabilizzante) sentenza di Dostoevskij per cui “la bellezza salverà il mondo”: ma, come ammonisce Salvatore Settis, “La bellezza non salverà proprio nulla, se noi non salveremo la bellezza". 
[da T. Montanari, Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà, minimum fax, Roma 2014, pp46-48]
 
Di fronte a tutte queste considerazioni, l’unica con cui mi trovo in disaccordo riguarda la veicolazione multimediale dell’arte. Asserisco che, se possibile, è di gran lunga migliore la fruizione diretta ai beni artistici, in caso contrario, non si può far altro che piegarsi alle disponibilità online dei musei stessi. Con l’emergenza sanitaria da Covid-19, molti di essi hanno preferito non aprire le proprie porte ai visitatori optando per una visita online da casa, con the alla mano, pigiama e senza quella calca che non permette mai di vedere e godere delle opere maggiori dell’esposizione. È anche vero che il libro di Montanari è stato scritto nel 2014 e, se non è un profeta (come credo che sia), sicuramente ha pensato e messo nero su bianco quelle affermazioni senza alcuna previsione così catastrofica riguardo al futuro. Credo che se oggi fosse intervistato, cambierebbe persino idea. Per quanto concerne le altre tesi riportate, non posso fare altro che schierarmi dalla sua parte, sostenendo, come lui, il grande valore del patrimonio artistico. L’unico in grado di risvegliare la memoria degli antichi. L’unico in grado di riscattare lo spirito indolenzito del mondo odierno. L’unico in grado di mantenere vive le speranze in un futuro migliore. Sì. L’arte può fare tutto questo. Perché? A mio parere, perché, in ogni sua forma, utilizza una lingua universale, comprensibile a ogni individuo e senza bisogno di mediazioni; e perché l’essere umano, essendo, di per sé, legato al proprio luogo di appartenenza, alla propria patria, di conseguenza lo è anche nei confronti del patrimonio culturale. A testimonianza di ciò, si può citare l’abitudine di Vittorio Alfieri che era solito recarsi presso la Basilica di Santa Croce in Firenze. Precisiamo: la sua visita non era casuale o senza motivo, anzi, credeva con tutto se stesso che vedere le tombe dei grandi italiani del passato sepolti lì (Machiavelli, Michelangelo, Galileo e il cenotafio di Dante e Petrarca), gli avrebbero permesso di trarre ispirazione e sentire ancora la presenza di quelle menti gloriose. Su questa linea di pensiero, poco più tardi, si collocarono anche Ugo Foscolo e John Keats. Il primo, nel carme dei Sepolcri, ribadisce come, grazie alle tombe, e quindi ad una costruzione artistica, si possa accedere a quel patrimonio di speranze, valori, ideali antichi. Il secondo, nell’Ode su un urna greca, alla fine esordisce con “Beauty is truth, truth beauty,’- that is all ye know on earth, and all ye need to know” (bellezza è verità, verità bellezza, questo è tutto ciò che sapete sulla terra, ed è tutto ciò che vi occorre sapere). Il poeta vuole dire che la bellezza, ovvero l’arte, è l’unica cosa che rimane eterna e inesorabile di fronte al tempo e, di conseguenza, l’unica fonte di sapere che ci permette di conoscere, di andare oltre i limiti e rompere le catene. Tuttavia, sono costretta in parte a smentirmi. Se da una parte credo che il patrimonio artistico sia eterno come il suo messaggio, dall’altra ritengo che sia stato e sia ancora in grave pericolo a causa dell’indole cangevole e distruttiva dell’uomo. L’essere umano, ma prima, la società in cui vive è assai instabile. Lo illude di essere libero, quando, in realtà, non lo è. Lo costringe ad un vita frenetica, dove non c’è spazio per le piccole gioie della vita e la riflessione. Gli impone delle regole, a volte anche scomode: il modo in cui comportarsi, vestirsi, che cosa apprezzare e che cosa no, quale evento dimenticare. In un contesto del genere, è scontato dire che l’indifferenza verso la cultura cresce a dismisura. Le poche volte che ho avuto l’opportunità di visitare un museo o una mostra d’arte, la maggior parte delle persone (adulte o abbastanza grandi) si limitavano a guardare l’opera o l’oggetto esposto senza nemmeno buttare l’occhio su quelle piccole targhette riassuntive poste di fianco che, seppur brevi, ti aiutano ad entrare meglio nello spirito della storia. Questo è un esempio sciocco, ma, seppur scontato e banale, ha dietro un grande significato: se la curiosità e l’interesse non stanno prima nelle piccole cose, non hanno motivo di trovarsi in altre molto più grandi e complesse. Penso, quindi, che “la bellezza salverà il mondo” solo quando noi l’avremo veramente salvata non dai cataclismi naturali, imprevedibili, ma dall’uomo stesso. Mentre gran parte dell’umanità è persa nella propria indifferenza e frenesia, le bombe o la mala difesa dei beni culturali distruggono patrimoni artistici dal valore inestimabile. È questo il caso dell’Abbazia di Montecassino che, nel 1944, è stata rasa al suolo dalle forze alleate in quanto si credeva che al suo interno si nascondessero dei nazisti. Si scoprì, solo in seguito, che questo pensiero era falso. Ad oggi è stata completamente ricostruita per mantenere vivo il ricordo di ciò che era.  In Afghanistan, è il caso di un grande Buddha, una costruzione colossale, che è stata distrutta dai Talebani. Non è ancora avvenuta la ricostruzione materiale, ma la sua immagine vive ancora grazie ad una proiezione multimediale all’interno della nicchia d’origine. In Francia, è il caso dell’incendio alla Cattedrale di Notre Dame di Parigi, che ha causato il crollo della guglia e della copertura. Il restauro è avvenuto provvedendo alla copertura per continuare l’utilizzo religioso della costruzione, anche se questa resterà, per sempre, offesa dalla perdita della guglia, che, seppur fosse una ricostruzione ottocentesca, era un segno distintivo della nazione francese. A difesa legislativa del patrimonio culturale italiano, si schiera l’articolo 9 della Costituzione, che afferma: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». In quest’ultimo, il passato e il presente artistico, come sostiene Montanari, sono sullo stesso piano. Infatti, come la cultura è ciò che identifica un popolo, è altrettanto vero che il progresso, il futuro, può avanzare solo se si ha conoscenza del passato. È così che ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà si trova a coesistere sulla stessa linea temporale. In quest’ultimo, la la tutela non è solo rivolta ai beni artistici, di cui si è parlato finora, ma anche alla cultura materiale (usi e costumi, usanze e artigianato locale) e immateriale (musica, cucina, teatro, opere) e al paesaggio (inteso come panorama nazionale e bellezze naturali). In realtà, però, la vera e propria istituzione per la difesa dei beni culturali fu fondata diverso tempo dopo l’emanazione dell’articolo 9. Questo fu sempre rimproverato al ministero, per l’appunto, da Salvatore Settis, che, non a caso, è lo stesso che sottolinea l’importanza di salvare la bellezza per salvare anche noi stessi. Il poeta inglese Wordsworth, nella prefazione delle Lyrical Ballads, ha affermato in riferimento alla poesia, ma applicabile anche ad ogni forma di arte: «Poetry is the spontaneous overflow of powerful feelings» (la poesia è la spontanea fuoriuscita di sentimenti potenti). L’arte riceve, l’arte da. Procura gioia, dolore, amore, amarezza, soddisfazione e insoddisfazione. Se si chiedesse a due persone diverse di fornire un’interpretazione riguardo un’opera musicale, letteraria, artistica, è assai probabile che i loro pensieri siano differenti. Questo è lo scopo dell’arte: essere una domanda a cui non c’è una risposta precisa, ma fornire un’ispirazione e una forza che non possono essere date da niente e nessuno. È unica. Custodiamola.

Anna Pregliasco - III classico

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