Tra filosofia e cinema: The Truman Show


The Truman show è un film del 1998 diretto da Peter Weir. Il protagonista della vicenda è Truman Burbank, un agente assicurativo che trascorre un’esistenza serena e tranquilla a Seahaven da ormai trent’anni. Egli, tuttavia, a sua insaputa è il protagonista di una celebre soap-opera trasmessa in tutto il mondo 24h/24h e sette giorni su sette. La sua vita, dunque, è una finzione, giacché tutti coloro che ne fanno parte stanno semplicemente interpretando un ruolo e recitando un copione. A seguito di vari eventi insoliti come la caduta di un faro della luce dal cielo, la misteriosa scomparsa del suo primo amore e il ritorno del padre morto, Truman inizia a dubitare di tutto ciò che lo circonda e giunge a vedere nella madre, nella moglie e nel migliore amico, dei perfetti sconosciuti. Egli, nonostante sia conscio del fatto che la vita a lui offerta a Seahaven sia priva di preoccupazioni, di dolore e sofferenza, decide di liberarsi dalle catene della paura e dell’ignoranza, che lo tengono legato a un mondo basato sulla menzogna e l’inganno. Dietro a questa narrazione non possiamo che riconoscere la filosofia di Platone e in particolare la ripresa de "Il mito della caverna", scelte dovute molto probabilmente all’interesse nei confronti di tale dottrina da parte del regista, che sappiamo aver letto "La Repubblica" prima di dedicarsi alla stesura della sceneggiatura del film.

Per comprendere il paragone, tuttavia, è necessario riprendere il famoso mito del filosofo greco dove un gruppo di schiavi è incatenato in una caverna ed è costretto a guardare solo davanti a sé. Sul fondo della caverna si muovono ombre di statuette, che sporgono al di sopra di un muro alle spalle dei prigioneri e che raffigurano qualsiasi cosa. Dietro al muro, senza essere visti, si spostano coloro che reggono le statuette e più in là, arde un fuoco che rende possibile il proiettarsi delle ombre. Gli schiavi, dunque, non vedendo altro, sono convinti che le ombre siano l’unica realtà esistente. É questo il caso di Truman, che come gli schiavi, avendo vissuto per tutta la vita a Seahaven è convinto che questa sia la realtà, mentre invece essa è un artificio realizzato dall’uomo. Il protagonista, infatti, vive inconsciamente nel più grande studio mai realizzato, racchiuso in un’enorme struttura visibile dallo spazio.

Platone, nella seconda parte del mito, immagina che uno degli schiavi riesca a liberarsi dalle catene e che voltandosi, questi capisca come le statuette siano la realtà e non le ombre. Se poi questi riuscisse a risalire all’apertura della caverna, scoprirebbe con stupore che la vera realtà non sono nemmeno le statuette, poiché queste sono a loro volta imitazioni di cose reali. Allo stesso modo, quando Truman scopre la verità, varca la porta della caverna e ne fuoriesce, nonostante questo gli sia sconsigliato dal produttore, che lo avverte che, al di là di questo mondo di plastica realizzato per lui, non sarà più al sicuro.

Il registra, adattando il tema del mito della caverna alla società attuale, riesce sicuramente a spingere lo spettatore a compiere una riflessione etico-sociale e a lasciare un chiaro messaggio: la realtà in cui ci troviamo a vivere è definita a nostra insaputa ed è importante che ciascuno di noi sia vigile e si impegni a comprendere il meccanismo in cui siamo inseriti. Questo è sicuramente un messaggio importante per una società come quella contemporanea, basata sul consumismo, dove le necessità di ciascun individuo sono strettamente manipolate dall’azione esasperata delle pubblicità e dalle mode, che fanno apparire come reali i bisogni fittizi per favorire l’arricchimento dei grandi capitalisti e dove i media e la comunicazione indirizzano l’opinione comune. Il mondo in cui è rinchiuso Truman, infatti, propone una realtà da accettare senza riflessione e in cui è esaltato uno stile di vita superficiale caratterizzato dall’omologazione, giacché a tutti sono assegnate delle mansioni e ciascuno è cosi impegnato a svolgerle e a rispettare le tabelle degli orari, rincorrendo il tempo, da non aver tempo per riflettere su cosa stia effettivamente facendo.

In conclusione, questo film è sicuramente da collocarsi tra quelli che devono essere visti almeno una volta, giacché grazie alla sua breve durata di 104 minuti, riesce a fare riflettere lo spettatore senza che ne sia intaccata l’attenzione e a impartire una valida lezione contrariamente a quanto accade solitamente con molte opere cinematografiche, che spesso trattano di tematiche basse e non hanno altro scopo che raggiungere il numero più esteso possibile di spettatori e soddisfare la domanda sul mercato.


Mastaoui Hiba, 4^B


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