CHI VUOLE VIVERE COME GATSBY?

 


Quando vidi per la prima volta l'adattamento cinematografico de Il grande Gatsby, ne rimasi così tanto affascinata, scossa ed intenerita che decisi di farne un'ideale di vita per i successivi anni. Non molto tempo dopo mi resi conto di un'amara verità: non ero un ricca ereditiera americana, e non vivevo in un abbiente quartiere di New York.

La bella Daisy, la misteriosa Jordan, e poi lui: Jay Gatsby, un uomo che, per la sua apparentemente dolce amata, ha costruito quello che a me piace chiamare "il castello delle illusioni".

Qualche anno dopo, decisi di cimentarmi nella lettura del romanzo di Francis Scott Fitzgerald che ha dato vita, 88 anni prima, a quel paradiso estetico del cinema.
Solo con una maturità un pochino più allenata sono riuscita a comprendere, almeno in parte, la triste oscurità celata dietro a quel vivace luccichio. 

Le vicende, raccontate in prima persona da uno dei personaggi, Nick Carraway, prendono forma nella New York degli anni '20, in un quartiere fittizio abitato da ricchi e stravaganti personaggi.
Nick si è da poco trasferito in un piccolo cottage accanto al grande castello di Gatsby, uomo misterioso, estremamente solo, dal passato sconosciuto, circondato da voci che si contraddicono l'un l'altra.
E poi c'è Daisy, il motore dello sfarzo e, infine, della rovina di Gatsby, suo eterno devoto, il quale metterà in scena una vita all'altezza di ciò che pensava essere la sua vecchia fiamma, ormai sposata con il semplice e rozzo Tom.

Insomma, un romanzo che possiamo definire manifesto di quell'illusorio sogno americano, di un tempo in cui le feste e gli eccessi nascondevano la grande solitudine e la paura, intrappolati tra una guerra passata ed un'altra che stava per arrivare.

E così, via: musica jazz, champagne e fuochi d'artificio, poco importa se non si conosceva nemmeno il volto del padrone di casa, un uomo che, a mio avviso, incarna meglio di chiunque altro il sopracitato American dream, e quella speranza spezzata di poter nostalgicamente vivere nel passato.
Così come, sia oggi che un tempo, una miriade di uomini e donne riponeva le proprie speranze in quel porto di Long Island, Gatsby credeva nella "luce verde", la sua più alta ambizione, forse nemmeno l'amore per Daisy, ma la sua stessa idea.

Passato e futuro, un avvenire luminoso, il suo desiderio, la volontà romantica di ricreare un ricordo, e di portarlo esasperatamente alla perfezione. Perfezione che, come si sa, non esiste.
"Non si può ripetere il passato", dice Nick al triste amico Jay.

Ci vorrebbero interi libri per poter parlare di tutti i temi simbolici contenuti in questo capolavoro della letteratura americana. Si discuterebbe di solitudine, di vuotezza, di falsi sentimenti e snobismo. In quei ruggenti anni '20, nemmeno così differenti dai nostri, caratterizzati dalla tragica scomparsa di vecchi ideali, di punti di appoggio e da una generale decadenza morale, davanti a tutto quell'ostentato e seppur meraviglioso splendore, sorgerebbe spontaneo affermare che "non è tutto oro ciò che luccica".

"Gatsby credeva nella luce verde", citano le ultime righe del romanzo, "l'orgasmico futuro che anno dopo anno recede davanti a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa: domani correremo più veloce, allungheremo di più le nostre braccia...E un bel mattino... Così viriamo di bordo, barche contro la corrente, riportati incessantemente nel passato".

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