Il femminicidio

Il femminicidio


In queste ultime settimane purtroppo si è tanto sentito parlare di femminicidio e sembra quasi essere diventato un argomento normalizzato e oggetto di discorsi quotidiani.

Ma facciamo qualche passo indietro e partiamo da quella che è la distinzione tra omicidio e femminicidio. Innanzitutto ancor prima di arrivare alla morte di una donna ci devono essere dietro una serie di vicende che sfociano nel cruento atto finale.

Le forme di violenza di genere si possono distinguere principalmente in cinque categorie: la prima che viene in mente è la violenza fisica, talvolta preceduta da quella psicologica che porta al controllo della vittima (questo punto vedremo poi essere uno dei moventi di uccisione), alla violenza fisica si affianca quella sessuale, il ricatto economico, lo stalking e, nelle società o famiglie più retrograde, perfino il matrimonio forzato.

Ora che abbiamo individuato le macrocategorie di violenza si può passare all’analisi che differenzia un omicidio da un femminicidio.

Per far sì che si parli di femminicidio la vittima dev'essere necessariamente una donna e quest’ultima dev’essere all’interno di un preciso contesto relazionale con l’uccisore (ci può essere un grado di parentela, conoscenza intima o non), inoltre dev’essere presente anche una dinamica di dominio e possesso da parte dell’uccisore sulla vittima.

Alla luce di questo excursus vi vorrei presentare due vicende che inscenano quanto spiegato.

Il primo vede compiuto un vero e proprio femminicidio ed è ricavato da un testo della letteratura italiana moderna, il secondo invece, sebbene sia un mito classico abbastanza conosciuto, è un ottimo esempio di violenza psicologica.

Sicuramente molti di voi conosceranno l’autore italiano Giovanni Verga ma meno noto è il suo testo intitolato “Tentazione”. Questa storia narra di  tre operai che dopo aver terminato la giornata lavorativa si recano a Vaprio, vicino a Milano, per andare ad una festa. Sono tre amici, senza fidanzate, liberi di divertirsi, bere e scherzare con le ragazze del posto. Nel tragitto per prendere il treno incontrano però una bella contadina, «di quelle che fan venire la tentazione a incontrarle sole»: Carlino, uno dei tre ragazzi, inizia con quello che noi chiameremo modernamente cat calling: «Che gamba, neh!Se va di questo passo a trovar l’innamorato, felice lui!». I tre iniziano poi ad attaccarsi alla gonna della contadina e la ragazza reagisce impavidamente esclamando «Io non ho paura di voi né di nessuno! – Né di me? – E neppure di me? – E di tutti e tre insieme? – E se vi pigliassimo per forza?” 

I tre giovani, dopo aver dato un’occhiata intorno ed essersi assicurati che non ci fosse nessuno nei paraggi, iniziano a chiederle dei baci ma al rifiuto comincia una zuffa con la ragazza così i tre cercano di bloccarla per poterla stuprare. 

Alla fine la donna, di cui non si nomina mai il nome, «rimaneva immobile stesa supina sul ciglione del sentiero, col viso in su e gli occhi spalancati e bianchi». I tre assassini decidono quindi di occultare il cadavere di cui però non entrava la testa nella fossa da loro scavata, così decisero di mozzare il capo con un coltello. Le ultime pagine del racconto vedono i tre uccisori Ambrogio, Carlo e Pigna arrestati e condotti in carcere dove si incolpano a vicenda e riflettono, su «come si può arrivare ad avere il sangue nelle mani cominciando dallo scherzare».

Il secondo episodio che vi riporto è il mito greco di Medea, donna dalle mille arguzie che conosce la magia. Dopo aver tradito il padre e ucciso il fratello per favorire la conquista del vello d'oro a Giasone e agli Argonauti, Medea si trasferisce a Corinto insieme al compagno e ai loro due figlie, seguendo quello che pensava essere l'amore della sua vita. 

Dopo alcuni anni però Giasone ripudia Medea per sposare Glauce, figlia di Creonte re di Corinto. Quest’unione infatti gli avrebbe garantito il diritto di successione al trono.

Medea disperata e furiosa  si lamenta col coro delle donne corinzie lanciando maledizioni sulla casa del marito. Il re Creonte, sospettando una possibile vendetta, invita Medea a lasciare la città. Ma la donna, riuscendo a nascondere con abilità i propri sentimenti, resta ancora un giorno, necessario per poter attuare il proprio piano. Per prima cosa ottiene dal re ateniese Egeo di passaggio per Corinto, la promessa di ospitarla nella propria città offrendo le proprie arti magiche per far sì che lui potesse un giorno avere un figlio. Successivamente, fingendosi rassegnata agli occhi di Creonte, manda in dono alla futura sposa di Giasone una ghirlanda e una veste avvelenata. Dopo aver indossato i doni la ragazza muore tra atroci tormenti bruciata viva dal vestito; la stessa sorte tocca a Creonte dal momento che aveva toccato l’abito con l’intento di salvare la figlia. A questo punto Giasone accorre per tentare di salvare almeno i propri figli, ma Medea appare sul carro alato del dio Sole, mostrandogli i cadaveri da lei uccisi sebbene straziata dal dolore ma volendolo ugualmente privarlo di una discendenza. Alla fine la donna vola verso Atene, lasciando il marito a maledirla distrutto dal dolore.

Questi due esempi sono estremizzazioni di realtà che a pensarci sono molto vicine a noi: quante volte, (riferimento a “Tentazione”) è capitato di sentire un annuncio tramite radio o tv di ragazze scomparse di cui pochi giorni dopo ne viene attestata la morte? E quante altre volte ancora (riferimento a Medea) abbiamo visto un'amica o una ragazza da noi conosciuta perdere la testa lasciandosi condizionare dal volere di un fidanzato che poi si rivela essere un po’ troppo possessivo?


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